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Figl’ dr’ Sciacarée

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Talvolta un uomo si sottomette in cuor suo,
sottomette il visibile al veggente,
e cerca di tornare alla propria origine.
Cerca, trova, torna alla propria origine.

René Daumal, Il monte Analogo

Realdo e il monte Saccarello (Foto Giampiero De Zanet)

Non ricordo la prima volta che lo vidi, ma è uno dei miei primi ricordi.
Eravamo nell’orto con mio fratello e nonno Rnéstu che lavorava la terra. Affondava il tridente, lo spingeva giù con una pedata. Poi lo scalzava, la terra si sollevava e s’apriva e come una bolla di sapone. Dalle zolle venivano fuori pomi dorati e chiari. Pensammo che avesse trovato un tesoro.
Ne prese uno, lo pulì e ce lo passò. Era grande e pesava come un sasso di fiume.
«Cosa sono nonno?», gli domandai.
«R’ patacche!» rispose, “patate”.
«Ma come facevi a sapere che erano sottoterra?».
«Ah, ah, ah – nonno si fece una bella risata, con quella strana ruga che gli veniva vicino al naso quando rideva – Sachrnùn! Uh! Rutoliche! Me l’à dit r’ Sciacarée!» e indicò qualcuno dietro di sé. Fu allora che lo guardai. La vista era ancora occupata dalla sagoma di nonno Rnéstu in maniche di camicia che alzava il forcone e lo gettava a terra, sbuffando. Ma dietro c’era lui, r’ Sciacarée.
E allora? Lo guardavo per la prima volta. Fu come quando non s’è mai udito un tuono o si vede per la prima volta la neve o il mare: tremi, ti meravigli e anche un po’ ci soffri, quando capisci che è qualcosa che esiste da sempre e tu sei solo l’ultimo degli uomini a saperlo.
Più lo guardavo e più mi stupivo: sembrava lontano e vicino, semplice e impossibile insieme, lieve e solido allo stesso tempo. Ero stordito. Per la prima volta m’accadeva che ciò che vedevo non era ciò che guardavo. Era diverso e simile a nulla di ciò che avevo guardato mai prima al mondo. Subito mi venne una voglia matta di toccarlo. E volevo correre fino alla fine dell’orto, e andare oltre lo steccato, per toccarlo. Ma cosa avrei toccato? R’ Sciacarée o quello che credevo di lui? E poi si può toccare una montagna? Come si fa? Forse solo allora, con la fede di un bambino, sarei riuscito a toccarlo davvero. Oggi, invece, una montagna non la si possiede finché non la si scala fino in cima.
Stavano arrivando alcune nubi. La loro ombra correva già sulle spalle della montagna.
Nonno Rnéstu le guardò pensieroso. S’accorse che m’ero imbambolato a guardare all’insù.
«Eh! Loch ti aguaiti? L’ àigüra?», mi chiese se avevo visto un’aquila.
«Ci voglio andare nonno. Mi ci porti?»
«Und?»
«Lassù, sur’ Sciacarée!»
«Ah… eh ben. Ëndamm. Ma dopu chë amm avü mangià!», mi rispose. Ci saremmo andati dopopranzo, come se fosse una passeggiata il duro sentiero che parte in paese e passa da Collardente. Ma quel pomeriggio arrivò un grosso temporale e restammo a casa. Nonno Rnéstu, però, sembrava non aver dimenticato la promessa di portarci sul Saccarello. Ci scherzava. « Studiai, studiai –  diceva mentre facevamo i compiti – pöi nue ëndamm sur’ Sciacarée…». E, ridendo: «Ah… R li vòo ciü mai a fàa in bon paštùu che in bon dutùu». Ci teneva che finissimo i compiti delle vacanze.

Realdo (Foto Giampiero De Zanet)

Oggi posso dirlo, c’è un mondo prima e un mondo dopo aver visto r’ Sciacarée. Ora non faccio più caso a nulla, ma allora, mi accorgevo subito di tutto. Le cose cambiavano ogni giorno. Sì: dopo aver visto r’ Sciacarée, sapevo riconoscere una ad una le cicale del nostro fazzoletto d’orto. Capii che l’acqua del rigagnolo che nasceva sulle pendici del monte era la stessa che si buttava in mare nel torrente giù a valle. E scoprii che alcuni alberi perdevano le foglie e altri no. E che ad un certo punto arrivavano le rondini. Tutte cose ch’erano così da sempre. E io ero sempre l’ultimo a saperlo. Imparai a non arrabbiarmi più. Ma chissà se quell’estate fossimo andati sur’ Sciacarée quante altre cose avrei scoperto.
Purtroppo non ci fu più tempo, vennero su i miei, tornammo in città e ricominciò la scuola. Ma ciò che avevo visto non rimase muto, mi sentivo fortunato, volevo condividerlo. Iniziai a raccontarlo agli altri. Dicevo: «Ho visto r’ Sciacarée», «Ho toccato r’ Sciacarée». Avrei anche raccontato di esserci salito, ma non era vero. Era più forte di me. Non parlavo d’altro. Lo scrissi in un tema, ma non devo essermi spiegato bene, oppure alla maestra non piacque, forse perché era mezzo scritto in brigasco: l’estate con il nonno si faceva sentire. E i miei compagni mi prendevano in giro: «Uh! Ma come parli? Ah! Non ha mai visto una montagna!». Non capivano.

Le nostre estati a Realdo col nonno cominciarono ad accorciarsi, tanto che ora mi sembrano una sola, lunga estate, durata dai 5 agli 8 anni.
Nemmeno gli anni successivi nonno riuscì a portarci sur’ Sciacarée. Ma non per colpa sua: cominciarono a manifestarsi i problemi con cui dovette convivere fino alla fine. Le sue mani cominciarono a gonfiarsi, le giunture gli dolevano, si muoveva a fatica. Era la gotta. Prese lui come aveva preso suo padre e qualche cugino in paese. Ma finché poté, non rinunciò alle sue patate e a tutto il resto. Gli venivano difficili, invece, cose banali come farsi la barba da solo. Così gli ultimi tempi l’aiutavo io. Allora abitava già con noi, non poteva più vivere da solo, lassù. Lo portammo a casa in Riviera. Ma si lamentava, non era felice.
Lo mettevo su una sedia che dava sul terrazzino, con la luce del mare che gli inondava il viso. Ma negli occhi sembrava gli si formassero delle lacrime. Pensavo fosse a causa della schiuma da barba, ma non era così.
«Perché non sei contento? Qui c’è il mare!», gli disse papà, mentre lo rasavo.
«Ah, ma chi mi en végh r’ Sciacarée nu!», rispondeva. Non poteva più vedere il Saccarello. E mi guardava. Sapeva che potevo capirlo.

Ci raccontava sempre di quella montagna. Che in cima, se vuoi, con un salto, vai in Francia e con un altro torni in Italia. Che se nasci da una parte sei piemontese e dall’altra francese; ma lui era nato di qua, e parlava brigasco. Che oggi noi siamo come le nuvole sur’ Sciacarée: possiamo decidere dove andare e spostarci di qua e di là come vogliamo, senza che nessuno blocchi la nostra ombra. Ma c’è stato un momento dopo la guerra che lui e la sua famiglia furono costretti a scegliere dove stare, da un lato o dall’altro della linea che passa sulla cima dr’ Sciacarée anche se non erano nati lì. E che i boschi, i larici, l’erba e il resto erano gli stessi da entrambe le parti, ma, se le sue pecore andavano a mangiare di là, le guardie sparavano. «Ah, povri nue Reaudée», diceva. E poi si riprendeva, ci abbracciava forte e insisteva che anche noi potevamo essere brigaschi, ma dovevamo salire sul Saccarello, per capirlo. Gli dicevamo di sì, ma allora non ci capivamo granché.


Dopo che nonno se ne andò non salimmo più a Realdo per molto tempo. A papà non è mai piaciuto andare lassù. Mise anche in vendita la vecchia casa. Non ci disse nulla. Forse sospettava che non saremmo mai stati d’accordo. E se un giorno anche noi avessimo scoperto d’essere brigaschi? Per fortuna non la comprò nessuno. Il cartello “vendesi” se lo portò via qualche nevicata. A chi volete che interessasse in quegli anni una casa in un paesino di montagna senza impianti da sci e dove non ci sono locali e discoteche? In Riviera nessuno sarebbe tornato dove i suoi vecchi erano scappati. Ma sapevo che non era vuota: l’abitavano i ghiri, le arvicole e sotto il tetto sicuro avevano fatto il nido i rüchiròi, gli uccelli che volavano tra le rocce dr’ Sciacarée.

La dorsale del Monte Saccarello da Borniga (fraz. Realdo) (foto dell’autore)

Oggi io e mio fratello abitiamo in due città lontane. Lui si è fatto una famiglia in Francia, io in Italia, non so spiegare bene com’è andata. Ma nonno Rnéstu non aveva del tutto ragione: non siamo del tutto liberi di scegliere da che parte stare dr’ Sciacarée. Alla fine è la vita che decide per te.
Ci vediamo d’estate: abbiamo ristrutturato la vecchia casa del nonno e ci passiamo insieme le vacanze. Ma sur’ Sciacarée non ci siamo ancora saliti. Chissà che aspettiamo. Quando siamo a Realdo non facciamo altro che parlare delle giornate con il nonno nell’orto sotto il Saccarello, delle serate che non finivano mai e delle mattine a contare le cicale. Non parliamo d’altro. Come un disco rotto. Le nostre mogli non ne possono più di sentire quelle storie: «Ah! Ma cosa ci troverete in un orto e due patate?»
Con mio nipote invece mi diverto tantissimo. Ha 5 anni, giochiamo insieme alle bocce quadre nei carûg in paese. Lui mi parla in francese e io gli rispondo in brigasco.
«Ti esti fürb com ina gurp», gli dico, quando usa un muro per fare una sponda.
E lui ride, ride. E ha quella rughetta, proprio lì, vicino al naso.


A Nino Lanteri, a Eduardo e a tutti gli altri brigaschi

Carûg di Realdo (foto dell’autore)

Foto:

1. Realdo e il monte Saccarello (Foto Giampiero De Zanet)

2. Realdo (Foto Giampiero De Zanet)

3. La dorsale del Monte Saccarello da Borniga (fraz. Realdo) (foto dell’autore)

4. Carûg di Realdo (foto dell’autore)

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Ponti e guai dei paesi tuoi

Dopo il crollo del ponte Morandi, a Genova, si cerca una soluzione. Le pensano davvero tutte.

C’è chi, forse nostalgico dell’Oro alla Patria e di un certo passato, ha proposto che si doni al Comune ogni struttura portante da Voltri a Nervi per impiegarla come ponte.
Ecco che allora ogni palco, ogni trabatello, ogni assale, cavalletto, ogni impalcatura, andrebbero bene e si potrebbero portare in Val Polcevera per superare il tragico gap.

In centro storico, una soluzione si dice ci sia già: basterebbe montare uno sull’altro tutti i ponteggi dei cantieri, da via Prè a Porta Soprana. L’idea non è del tutto balzana se si pensa alla quantità di ristrutturazioni, di facciate e tinteggiamenti che rifanno il trucco della vecchia Zena: collegati un all’altro coprirebbero almeno il greto del Polcevera.

Anche in porto si sono fatti sentire e promettono grandi cose. Sarebbero già parecchie le proposte: oltre a alle tolde e alle tughe delle imbarcazioni più piccole, si parla di utilizzare tutti i ponti dispobibili sulle navi, da quelli di coperta a quelli delle paratie, di stazza, di bordo, ai ponti garage dei traghetti. Preoccupazione soltanto tra gli armatori di Crociere: una sola nave vanta almeno 10 ponti e in porto se ne sono viste che ne contano 18. Basterebbero da sole per il pezzo da Coronata all’Ikea.

Ai più anziani, i pensionati, in attesa del mega cantiere del nuovo ponte (per cui si spera Autostrade non farà pagare il ticket) non resta per ora che il sollievo della toponomastica. Se non c’è più Ponte Morandi, potete consolarli aprendo un elenco del telefono (se ne trovate ancora uno) oppure cliccando su Google Map per trovate via F. Ponte, Pontexelo, Ponte Carrega, via Ponterotto, Ponte Reale, Via Ponte Calvi, Pontedecimo, Ponte Monumentale e, in area portuale Ponte Andrea Doria, Ponte Parodi, Ponte dei mille e così via. Se non vi piace il selfcast, la Stazione Principe offre, ogni oretta, l’intrammontabile annuncio del regionale che non ferma a Pontetto (e Mulinetti).

Ma il guaio, non è solo logistico, dei trasporti.
E’ che anche noi, a Genova abbiamo bisogno di un ponte, di un nostro ponte. Ogni città ne ha uno come si deve, Venezia ne ha da vendere, Firenze ha Ponte Vecchio, Roma ha Ponte Milvio coi suoi lucchetti e Genova? Ne avevamo uno che pareva un robot, forte come Daitarn 3, ma fragile come Goldrake. Ora che non c’è più siamo come le formiche cui hanno pestato il formicaio.
Fatecelo vi prego, un ponte. Di trofie, di cuoio, di cemento, d’acciaio, di microfibra di carbonio avvantaggiato. Perchè altrimenti, tra poco, saremo del gatto, quel micio che passa, tranquillo sopra le macerie dopo il crollo.

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Interviste ai Maddalenanti: Ivan Lombardi

Ivan è una persona scrupolosa. Lo è nel suo mestiere, nella ricerca accurata di ingredienti e ricette, negli abbinamenti di cibi e vini; lo è nella sua attività nell’amministrazione comunale, dove è Consigliere Comunale con delega all’ambiente. E lo è anche all’interno della Compagnia Santa Maria Maddalena del Bosco: Ivan Lombardi è uno dei cuochi – il giorno della festa fa da mangiare per 500 persone – ma anche uno dei due Configuranti, il più esperto, del Ballo della Morte. E’ forse con grande accuratezza che ne parla, senza dimenticare o trascurare il più piccolo dettaglio, nemmeno le proprie memorie personali, in modo da far trasparire l’importanza che questo aspetto ha nella sua vita.

Ivan, com’è cominciata per te questa avventura?

Sono Maddalenante da sempre, ho 47 anni ma sono 44 anni che salgo alla Madaena e partecipo alla festa. Ma la mia “prima volta” è stata da esterno, da fuori.
Andò così: ho sempre vissuto il mondo Scout, e una volta, da ragazzo, a San Romolo di Sanremo, ci fu una riunione di zona in cui ognuno doveva portare qualcosa rappresentativo del proprio paese. Io scelsi di portare il Ballo della Morte. Ricordo che nel gruppo c’erano molte persone che facevano anche parte della banda di Taggia, la Pasquale Anfossi, dunque in molti sapevano cos’era il Ballo della Morte, ne conoscevamo la musica e la coreografia. Quella volta, però, poiché ero Maddalenante, fui destinato io a fare il Ballo. Stranamente ad accompagnarmi fu una donna, Gianna Panizzi. A volte, lontano dalla festa di luglio, è successo che una donna facesse il ballo: mia madre, ad esempio, lo fece con il padre di Renato Varese, proprio il Renato con cui io poi ho fatto il Ballo per anni. Dunque da molto tempo io amo la Madaena e il Ballo della morte.

Così, quando morì Bazurìn e si cercava un sostituto per fare il Ballo assieme a Renato, mi proposi io di farlo. Renato accettò subito entusiasta e decisero di farmi provare. Andammo da lui, al ristorante, la Trattoria Enza: tutti i Maddalenanti si misero intorno, come in un cerchio per vedermi e valutarmi. La prova andò bene e da allora sono io uno dei due che fanno il ballo.

Con quale ruolo sei partito?

Da subito, con Renato, io sono partito facendo il Morto. Ma poi, quando è arrivato Davide, abbiamo deciso di alternare i ruoli: un anno io faccio il Morto e lui fa u Vivu e viceversa l’anno dopo. Siamo i primi a farlo. Diamo anche nomi diversi ai ruoli: u Mortu, il Morto invece che la Lena, u Vivu anziché u Masciu, anche se questo era già stato Renato a farlo.

Come ti trovi con Davide Giuffra?

Con Davide ci siamo subito trovati bene. C’è una sintonia perfetta, un rapporto prima di tutto di amicizia personale, di rispetto, qualcosa che va oltre i ruoli che interpretiamo nel Ballo della Morte. Io e lui siamo cresciuti insieme, vivevamo entrambi nello stesso condominio, siamo amici fin da ragazzi. Era scritto che eravamo destinati a fare il Ballo insieme. Ci vogliamo bene, nessuno dei due vuole prevalere sull’altro ed essere il protagonista. Dunque la decisione di alternarci ogni anno è arrivata serenamente, fa piacere a entrambi.

Ma i vecchi come hanno preso questa decisione di alternarvi?

A dir la verità, non l’abbiamo chiesto a nessuno, è venuta e basta. Ed è stata una delle poche cose accettate subito da tutti, di comune accordo. Forse perché la gente si è accorta che noi il ballo lo sentiamo davvero, ce l’abbiamo dentro.

Che cos’è per te la Madaena? Perché ci tieni così tanto?

La Madaena per me è la festa della morte. La presenza della morte e dalla rinascita è continua in questa festa. Io la amo perché, nella Madaena, facciamo rivivere i nostri vecchi che l’hanno celebrata prima di noi. Perché esistono due tipi di morte. Quella biologica, del corpo, è nulla in confronto a quella dello spirito, all’oblio. Ebbene, noi, alla Madaena festeggiamo i nostri vecchi che ci hanno creduto, li riportiamo in vita. Ogni anno, ritornano nei nostri discorsi: “Te lo ricordi Stin u Cau”, oppure, “Te lo ricordi Renato”, “Marciantelli” e altri. Sono ancora vivi, tra di noi.
Basti questo aneddoto: quando mio padre fece il Contestabile, nel 1963, mio nonno stava morendo e non voleva andare alla festa. Ma mio nonno lo chiamò a sé e gli disse: “Giacomo, tu ci devi andare, perché questo non è il nostro paese” – mio padre era di Terzorio – “devi portare alto il nostro nome. Stai tranquillo, io ti aspetterò”. Mio padre allora va alla festa e fa il suo dovere di Contestabile: la partenza, il ritorno, l’entrata in paese, il lancio della lavanda. Poi, finita la festa, scese da cavallo e salì in auto e tornò a Terziorio. Entrato in casa, trovò suo padre a letto: “Ciao Giacomo, hai visto? Ti ho aspettato”. E morì. Andò così davvero. Ho la pelle d’oca a raccontarlo.
Negli anni successivi, mio padre salì alla Maddalena, oltre che per la festa, per ricordare mio nonno.
Questo è il vero valore della Madaena. Questo è quel che ci porta a trasmetterla e anche ciò che piace così tanto a chi la vede per la prima volta: noi Maddalenanti, in quel momento, abbiamo un’aura che ci fa trasmettere questa sensazione agli altri. La conferma di questo è vedere arrivare sempre nuova gente, persone che non erano di Taggia, come, ad esempio, molti immigrati dal sud, come Micolucci, Antonio Leone, Nino Romeo e altri.

Torniamo al Ballo della morte. Come lo vivi? Come ti prepari alla performance?

Io vivo il Ballo della Morte come una preghiera. Quando lo recito, per me, è come dire un Rosario. Io mi ci immergo, mi ci calo dentro completamente. E’ come se cadessi in una trance, concentrato nel suo sentimento e ciò che devo fare arriva senza neanche pensarlo. Sento forte l’impegno di trasmettere ciò che sto facendo, vorrei che a tutti arrivasse un pochino di quello che sento.
Per questo dico che il Ballo per me è una preghiera: perché c’è una morte, una rinascita e un ringraziamento finale. E’ un cerchio che si chiude e si riapre, come in un infinito. La mia speranza è che coloro che verranno dopo di me facciano lo stesso, per far rivivere la festa. Questo è il nostro impegno, che ci porta a trascurare le tutte interferenze che comunque ci arrivano da fuori o i problemi che abbiamo al nostro interno: perché sappiamo tutti che il valore va oltre noi. Le feste che non hanno valori, alla lunga, muoiono. La Maddalena no. Quel ventisette di luglio muore per noi un anno, ma ne riparte un altro.

Quindi voi due, tu e Davide, sentite questa responsabilità, il peso di questo rito quando ballate?

Il Ballo della Morte non è una semplice farsa di due uomini che mimano l’atto amoroso. Su questo, scherzando, potremmo dire comunque, che noi a Taggia, sulle unioni di genere, siamo sempre stati avanti!
Ma non bisogna banalizzare una cosa che arriva da lontanissimo, nel tempo e nello spazio. Un anno, a febbraio, all’altra festa di Taggia, quella di San Benedetto Revelli, una ragazza spagnola, ascoltando per caso “Balla balla saccu de paia”, la cantilena del Ballo della Morte, la riconobbe come una nenia cantata anche dalle sue parti, sui Pirenei. Per trovare un caso simile al nostro, occorre andare al Carnevale Bianco di Cegni, in provincia di Pavia, nel Ballo della povera donna. Ma il rito di Taggia resta comunque unico.
Nel farlo, io non ho mai ceduto alle movenze più scherzose, all’aspetto più goliardico, partendo dal presupposto che lo intendo come una preghiera. Il Ballo, nel suo valore ufficiale non va banalizzato e va preso sul serio. E’ qualcosa che va capita se non ci si ferma in superficie, non sono semplicemente due uomini che ballano. Dietro c’è una storia, un sentimento.

Ti trovi meglio a fare u Mortu o a Viva?

Mi trovo bene in tutti e due i ruoli. Mi pare di saperlo fare da sempre. Al Morto, che è una figura statica, bisogna a dare un carattere più definito, non da comprimario. E poi, cambiano con i tempi, cambiano le persone, cambia il Ballo della Morte.
A volte penso che il ballo più vero cui potremmo assistere sia quello fatto da due bambini, perché sarebbe il più spontaneo e libero, forse ne uscirebbe la sua essenza più vera.
Non proviamo mai il ballo fuori dalla Madaena. Lo facciamo solo poche volte all’anno. Ogni volta qualcosa viene spontaneo, ci sono situazioni diverse da comunicare.
Il Ballo per noi è un’espressione artistica, di comunicazione.

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La Festa dei Furgari a Taggia

Articolo pupplicato su www.culturainliguria.it

Per la festa di San Benedetto Revelli a Taggia si accendono grandi falò e si percorre il paese armati di furgari, canne di bambù ripiene di polvere da sparo. Tra sacro e profano, storia e antropologia di una festa popolare le cui origini si perdono nella notte dei tempi

Amata o odiata, spettacolare e dionisiaca, attesa e anche temuta, straordinariamente complessa ma anche semplice, come tutte le tradizioni popolari, la “Festa dei Furgari” di Taggia è una di quelle che dividono, a cui non si può partecipare a metà, senza viverla completamente.

E’ celebrata a Taggia la notte del sabato più vicino al 12 di febbraio, ricorrenza di San Benedetto Revelli, patrono della città, in memoria dello scampato pericolo di un’invasione saracena.
Le vicende, la leggenda, narrano che nel 900 dopo Cristo, quando sulla costa ligure imperversavano i pirati Saraceni, ai tempi in cui i califfati islamici Ommyyadi avevano conquistato grande parte del Mediterraneo, San Benedetto Revelli, eremita acclamato vescovo d’Albenga, consigliò, alla notizia dell’avvistamento delle navi saracene all’orizzonte, di accendere grandi fuochi e peregrinare in tutto il paese durante la notte con torce accese. I pirati, in questo modo, ingannati dalle fiamme, avrebbero così cambiato destinazione, credendo Taggia già distrutta e saccheggiata da una banda che li aveva preceduti. Così fu, e Taggia si salvò.
Il Santo avrebbe poi protetto la sua città natale anche in un’altra occasione, nel 1625, quando, durante la Guerra dei Trent’anni, la  Liguria di ponente era interessata dalla lotta tra il Ducato di Savoia e la Repubblica di Genova: i taggiaschi, per voto, avrebbero festeggiato “in perpetuum” la ricorrenza del santo e costruito un oratorio a lui dedicato se il paese fosse stato risparmiato. Come accadde.

Ancora oggi, dunque, a Taggia si celebra lo scampato pericolo accendendo grandi fuochi nelle piazze e percorrendo i “caruggi” del centro storico armati di “furgari“, speciali ordigni, simili a torce, ma fatti di canne di bambù riempite di polvere nera, che vengono sparati in aria o a terra, a seconda delle dimensioni e della potenza, emettendo lunghe faville di luce.

Questa la storia di una festa popolare, capace di trasformarsi e seguire il passo dei tempi come poche in Italia. In realtà, molto probabilmente, questa festa, come altre, è il risultato di un sincretismo, un collage di elementi storici e reminiscenze pagane, riti antichi che sopravvivono nel tempo assumendo nuove forme e significati. In provincia di Imperia e in valle Argentina, le tradizioni popolari e i riti religiosi sono tuttora molto forti. La zona, per motivi geografici, storici e politici è sempre stata una “sacca” di paganesimo: vi si  trovano ancora oggi credenze, usi, echi di tradizioni antichissime.

Fortissima è la prossimità dei Furgari con i riti di purificazione tipici di tutto il Mediterraneo nel periodo di febbraio, che prevedevano l’utilizzo di fuochi e falò. I romani li chiamavano Februales, celebrazioni in onore di Februa, dea della purificazione. Erano destinati a ricondurre le anime nell’oltretomba ed evitare alla comunità e alle messi pericolose contaminazioni con i morti. Nella zona, tali celebrazioni si mescolarono a quelle di origine celtica che certamente già esistevano, come la festa di Imbolc, durante la quale si accendevano fuochi in onore di Brigit, la dea splendente.  Il Cristianesimo fece propri questi riti con la celebrazione della Candelora e la processione con le fiaccole.
A Taggia anche il periodo dell’anno è propizio ai falò. A  febbraio, infatti, Il “carburante” non manca: i fuochi s’alimentano con le frasche degli olivi appena potati, mentre nelle cantine gli animi si scaldano con i novelli risultati delle vendemmie autunnali.
E’ una festa che mescola componenti carnascialesche, mimetiche, apotropaiche ed erotiche.
Questi suoi ingredienti, mescolati alla sua natura euforica, al fuoco e agli esplosivi, la rivestono di un fascino incredibile. Lo spettacolo reso nella notte dai furgari,  “Pinocchi fragili / parenti artigianali / di ordigni costruiti / su scala industriale” come canta Fabrizio De André ne “Il bombarolo”, attira da anni migliaia di persone, tanto da destare spesso preoccupazioni sulla sicurezza della manifestazione i cui rapporti con l’autorità, hanno, da sempre, difficoltà di ogni tipo. In molte occasioni consoli, regi prefetti, podestà, questori, sindaci e carabinieri, ne hanno vietato e osteggiato la realizzazione, motivati anche da qualche grave fatto di cronaca.

Ma, nel buio delle loro cantine, o, meglio, nell’aria secca dei solai, i taggiaschi continuano a costruire i loro pinocchi artigianali, che spareranno la notte per festeggiare il loro santo.
E salvarsi un’altra volta.

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Narrando Realdo: 6 – 9 agosto 2015

Pubblicato su:
http://imperia.mentelocale.it/66175-imperia-narrando-realdo-alla-scoperta-cultura-brigasca/

Tre giorni per raccontare la cultura brigasca. A Realdo, piccolo borgo a pochi chilometri da Triora, dal 7 al 9 agosto, cori, trekking, libri e racconti per parlare la cultura brigasca.

I brigaschi sono un popolo diffuso, che la storia ha sparso tra Italia e Francia, tra Piemonte, Liguria e Provenza, ma con una sua specificità culturale, un’identità da riscoprire.

Se volete incontrarli, ascoltare la loro lingua, assaggiare la loro cucina e sentirli raccontare le loro storie, dovete andare a Realdo, vicino Triora, d’estate, quando il paese rivive. Ogni estate, da Briga, da Nizza, da Imperia come da Bordighera o da Torino, molti brigaschi realdesi tornano nei luoghi dove sono cresciuti, rinsaldano il legame con la loro terra.

Quest’anno c’è un motivo in più per venire a Realdo dal 7 al 9 agosto. E’ “Narrando Realdo“, l’evento che racconterà la cività brigasca, per innescare la sua trasmissione, la sua conservazione.

Popolo a forte vocazione pastorale, la tradizione dei brigaschi è prevalentemente orale. Sono sempre stati presenti quindi i racconti, tramandati di padre in figlio, narrazioni che risalgono alla Seconda Guerra Mondiale (il territorio è stato protagonista della lotta di Resistenza e mutilato dai nuovi confini del 1947), alla Prima Guerra Mondiale e anche oltre, fino al periodo Napoleonico. Tutto è tramandato oralmente dagli anziani durante le veglie, i momenti serali di incontro tipici delle civiltà pastorali.

Ma oggi, con l’estinzione della cultura pastorale, questi racconti rischiano di perdersi e venire dimenticati per sempre. “Narrando Realdo” vuole ricreare le condizioni e l’atmosfera delle veglie, perché le narrazioni continuino a trasmettersi, di padre in figlio.

Organizzato da A VAŠTÉRA – Üniun de tradisiun brigašche, Narrando Realdo attraverso trekking, concerti corali, presentazioni di libri, conferenze e soprattutto dal racconto degli anziani del paese, racconterà i brigaschi, cercherà di far emergere la loro identità, forte un tempo ma resistentissima anche oggi, dopo che la storia, l’economia e le attività umane hanno portato questo popolo a frammentarsi e dividersi tra Italia e Francia.

Nei tre giorni della prima settimana di agosto il borgo risuonerà di racconti, musiche, cori e storie. Storie e Storia, frontiera, sapori, vita, esperienze: nulla è escluso nell’identità di un popolo.

Si comincerà con un trekking, in cui Laura Guglielmi e Giacomo Revelli racconteranno della loro terra, il ponente ligure, attraverso le parole degli scrittori che li hanno influenzati. Poi concerti corali, incontri come quello con l’antropologo Marco Aime, quello con gli scrittori Giacomo Revelli e Marino Magliani e racconti, quelli degli anziani del paese, alla ricerca o alla riscoperta di un’identità collettiva.

Questo il programma della manifestazione

venerdi’ 7 agosto 2015

– ore 10

Trekking nell’ubago

Trekking letterario a cura di Laura Guglielmi e Giacomo Revelli col supporto di una guida della Compagnia delle Guide Ambientali Escursionistiche (MY)

Un percorso sui confini. Camminando, ci fermeremo a leggere, raccontare, appuntare. I colori, gli odori, i gusti. Tutto ciò che ci arriva dall’ubago.

Al termine, per i partecipanti Merenda Sinoira al Rifugio di Realdo

– ore 18:00

Voci brigasche si incontrano: Concerto corale

Il coro dei “Cantaùu” di Realdo incontra “I Cantori” di La Brigue

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sabato 8 agosto 2015

– ore 10

Partenza dalla piazza della fontana

Due passi ne Ër Carùgë Sutàn, con Nino Lanteri

E’ la strada che corre sulla roccia tutta recintata da orti, dove è stato aperto un punto panoramico che consente di ammirare dall’alto lo strapiombo sul quale si erge il paese, con Nino Lanteri

– ore 11

Ër Carùgë

Chi siamo. Francesi, italiani, brigaschi. Il rattachement e altre storie.

– ore 17.30: Piazza della fontana

Il lato narrativo del tempo

Incontro con Marco Aime

Intervista di Laura Guglielmi

Racconti delle montagne. Il lato narrativo del tempo, sottratto alla fretta, ai media, regalato alla forza poetica della narrazione per recuperare luoghi, eventi e persone altrimenti ineluttabilmente perduti.

Antropologo e scrittore, Marco Aime ha esplorato il mondo delle culture e tradizioni alpine.

– ore 18.30 Piazza della Fontana

Presentazione di “Nel tempo dei lupi”, Giacomo Revelli

Intervengono Laura Guglielmi, Nino Lanteri.

– ore 20

Borniga, Festa della Madonna della Neve

Eduardo racconta.

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Domenica 9 agosto

– ore 12 Piazza della Fontana

Luigi: storie della Resistenza

– ore 16: Museo Ca’ de’ Brigaschi

La frontiera: lo scrittore Marino Magliani legge i suoi brani sull’entroterra e la frontiera

Su facebook: https://www.facebook.com/NarrandoRealdo

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