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Anniversario scomparsa Italo Calvino

Mi unisco anch’io ai post sull’anniversario della scomparsa di Italo Calvino.

Il giorno dopo, però, perché me ne ero dimenticato e ora corro ai ripari, come si fa per un parente, uno zio, di cui hai dimenticato l’anniversario. (Menomale ora c’è Facebook).

Caro zio Italo, in tanti anni che non ci sei, sono cambiate molte cose.

A ponente ci sono molti meno alberi, un po’ bruciano un po’ li tagliano: a Sanremo hanno tagliato pure i pini sul porto, non saprei dove potresti saltare di ramo in ramo per scendere al mare dalla Madonna della Costa.

La floricoltura, ahinoi, non se la passa granché bene: delle serre che tuo padre guardava orgoglioso non rimarrà presto soltanto l’effetto che ne porta il nome.

La speculazione edilizia, quella, invece, fiorisce rigogliosa e spinosa come i bougainville, tanto più ora che aspettiamo la manna del Recovery Fund (per spiegarti, hai presente il piano Marshall?)

La Resistenza? Qualcuno ne parla ancora, ma da troppo dura questa gran bonaccia, altro che le Antille, e quelli là già stanno tornando: speriamo di non dover andare a cercare di nuovo tra i nidi di ragno per uscirne fuori.

Più di tutto, oggi, ci manca un po’ di leggerezza. E speriamo che questa notte d’inverno passi in fretta…

E poi c’è questa cosa che rende le città invivibili più che invisibili, un virus per cui non bastano mascherine o distanze sociali: l’egotismo esasperato, il nascisismo col fiato corto, l’individualismo pret-à-porter, per cui si vive dimezzati tra una vita insipida e l’armatura vuota che ci costruiamo online per cercare qualche secondo di celebrità sui social.

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La ferrovia sotterranea Colson Whitehead

C’è un treno che corre sottoterra. È carico di disperati, diseredati in fuga, schiavi provenienti da zone del mondo in cui l’uomo sfrutta l’uomo e la violenza è la quotidianità. L’unica alternativa a quel treno è una vita spenta, priva della qualità unica della vita stessa: la libertà.
Ma prendere quel treno non è semplice, non è da tutti. Bisogna fuggire da sé, dal proprio orticello coltivato con fatica, dal mondo che si è sempre conosciuto. Un uccello che nasce in gabbia spesso non sa volare. È poi un viaggio in completa solitudine, attraverso deserti aridi d’umanità; c’è poi chi resta bloccato per anni alla stazione a scontare il prezzo della propria libertà con violenze e soprusi.

Non vi ricorda qualcosa? E’ la sensazione che si ha leggendo La ferrovia sotterranea, di Colson Whitehead. Per tutte le 376 pagine questa domanda ronza in mente, fino alla fine, fino all’ultimo scambio ci si chiede se questa storia è realtà o fantasia.
Il libro racconta di una ferrovia sotterranea, costruita chissà da chi e perchè, che nell’America di prima della guerra civile porta gli schiavi dal sud al nord antischiavista. Cora, una ragazza cresciuta nella piantagione dei crudeli Randall, che ha sempre avuto la piantagione come unico orizzonte, viene un giorno a contatto con la Ferrovia sotterranea. Deciderà di cambiare la sua vita attraversando una palude di pentimenti, raggiungendo un giorno una fattoria e poi da li una botola in un fienile per scendere sulla banchina e aspettare quel treno, non comodissimo certo, ma per fortuna, almeno quello c’è. Cora si lascerà dietro mercanti di esseri umani, crudeli cacciatori di schiavi, ciarlatani, politici, imbonitori. Compagni, sorelle, amici, amori che non ce la faranno. Ma anche un mondo senza un briciolo di solidarietà, dove “I bianchi di mangiano viva, ma a volte ti mangiano viva pure i neri”. E dove chi fa la guerra per liberare gli schiavi ha pure lui i suoi interessi.
Forse è anche questo che non suona nuovo. Nessuno fa nulla per nulla. Ma in un’epoca in cui si parla di infrastrutture da fare o no, di treni che attraversano valli, monti e territori, leggere un libro come questo può essere utile a riportarci sul binario giusto. E chissà se esiste una TAV che corre sotto il Mediterraneo, destinata agli esseri umani anzichè alle mozzarelle, come disse qualcuno prima di cambiare idea. L’unica TAV che s’ha davvero da fare. Un treno che unisca una Europa, un’America, che corrono sempre più veloci, (ma verso cosa?) con un’Africa un mondo che rimane indietro prigioniero del proprio enorme potenziale perennemente inespresso.

Forse è colpa della Storia? Viene in mente Eugenio Montale: La storia non è poi/la devastante ruspa che si dice./Lascia sottopassaggi, cripte, buche/e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La Ferrovia sotterranea è uno di questi sottopassaggi. Chissà, forse ce ne saranno altri. E noi, invece, che siamo già arrivati, prima di emettere proclami e giudicare, dovremmo prendere il treno all’incontrario per vedere l’effetto che fa.

https://www.edizionisur.it/catalogo/bigsur/la-ferrovia-sotterranea/

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Prima che te lo dicano altri, di Marino Magliani

Un libro scuro, che sa di terra. Come nella foto di copertina, terra che rimane tra le dita di chi legge, terra che resta poco sul comodino e poi passa nell’anima per un bel po’: non è un libro che si chiude come gli altri, “Prima che te lo dicano altri”, di Marino Magliani, ed. Chiarelettere.

Essere un libro “scuro” non vuol dire essere un noir: certo, c’è anche questo lato in quello che molti definiscono il “libro della maturità” di Magliani, ma definire questo romanzo un noir non sarebbe un complimento, forse sarebbe riduttivo.

C’è la terra della Liguria, impastata sapientemente con quella dell’Argentina, a tal punto che a volte poco si riescono a distinguere l’una dall’altra e solo il capovolgersi delle stagioni lo permette. C’è l’antico sapere dell’agricoltura, tramandata di padre in figlio, con gesti, parole dettagli comuni da una parte e dall’altra del mare, come solo l’Internazionale contadina sa fare. C’è la Storia con la “S” maiuscola, quella di Montale, che non è una devastante ruspa ma lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli dove qualcuno sopravvive. C’è la speculazione edilizia, antico male sempre nuovo nella Liguria del Magliani di oggi come in quella, distopica, che lui immagina (e che speriamo non prefiguri) nel 2024.

Leo è un cacciatore – agricoltore, un personaggio tuttofare, come ne esistevano e ne esistono ancora nel ponente ligure, uno che compra olive, vende legname e conigli, è pratico d’orti e frutta e conosce i cicli e le malattie delle piante. Uno con le dita sempre sporche di terra, quando non le ha sul grilletto di una carabina a caccia di cinghiali.
Succede che anche uno così, Leo, cerchi un’identità, perchè non gli basta quella, fortissima, che gli arriva dalla propria terra, ma, soprattutto, se in paese lo chiamavano sensa paie cioè uno cresciuto senza padre. Cerca quell’identità nella villa di un certo Raul Porti, un faccendiere misteriosamente scomparso, forse in Argentina, che però fu l’unico a dargli un’infanzia “normale”, accettando di dargli ripetizioni e insegnandogli l’innesto, l’arte di impiantare i rami migliori di una pianta su un’altra per migliorare la qualità dei frutti. Leo comprerà all’asta quella villa, forse per riappropriarsi degli alberi e delle piante che innestò da bambino, ma non sa che la sua vita, dietro a ciò che vi scoprirà, cambierà per sempre, fino a portarlo dall’altra parte del mondo e metterlo a contatto con l’orrore dei desaparecidos in Argentina.

Forse il nuovo Biamonti si chiama Magliani? Di certo c’è la stessa capacità di incollare il francobollo ligure sul mappamondo di Mercatore, di collegare le piccole vicende personali, gli innesti, le potature, i litigi tra vicini con gli uragani complessi della Storia. Cominci a seguirlo e, dalla borgata Asinelli in Val Prino ti ritrovi, improvvisamente, in un sobborgo di Buenos Aires a bussare a casa di un torturatore.

Quello di questo romanzo è un Magliani che crea ponti: come quello tra il 1974 e il 2024, tra il Leo bambino e quello cinquantenne, quello tra la Liguria e il Nuovo Mondo. Così, il machete in copertina possiamo interpretarlo come un coltello da innesto, strumento altrettanto prezioso alle nostre latitudini.

Ponti tra le occasioni perdute della Storia: quelle del ponente ligure che si rassegna ad essere terra di speculazioni e l’Argentina che ancora oggi non sa fare bene i conti con il suo passato.

Ponti tra le letterature: dall’argentina terriera di Cambaceres, alla Liguria rurale di Biamonti e Calvino. Il titolo del romanzo “Prima che te lo dicano altri” richiama quel “Prima che tu dica pronto” di una raccolta calviniana, restituendo tutto il carico d’attesa e la potenza narrativa di un dialogo tra un padre e un figlio interrotto nel tempo.

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Italo Calvino e gli avi degli antenati

– Tu a che età sei stato bambino?
– Sono stato bambino molto a lungo.
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Quando eri bambino con che cosa e con chi giocavi?
– Giocavo… con degli spazi, con degli ambienti. I giochi si dividono nei giochi che si fanno in un ambiente delimitato, per esempio un campo di football, e i giochi che si fanno al di fuori di un ambiente… È già un gioco fare un certo percorso. Per esempio: qual è il primo gioco che fa un bambino piccolo di tre, quattro anni quando lo portano al parco? Vede un muretto e vuole camminare sul muretto, tenuto per mano magari. Questa cosa del muretto in fondo mi è sempre rimasta.
– Un po’ da Tom Sawyer?
– Sì, per esempio… andare fino alla punta del molo, saltando da uno scoglio all’altro; oppure percorrere un torrente senza mai passar per le strade, ma da una pietra all’altra del torrente superando i punti difficili, perché ci sono… dei piccoli laghetti.
(Tratto da una intervista di Nico Orengo a Italo Calvino, in “Buonasera con… Calvino”, programma di Lucia Bolzoni, Nico Orengo, Donatella Ziliotto, regia Vittorio Nevano, Rai Due, 5 giugno 1979).

Una volta Nico Orengo chiese a Italo Calvino a che età era stato bambino e lui, con il suo parlare provvisorio, incespicante, con quel suo dire che pareva stesse raccontando una fiaba ad Esopo, gli diede la sua idea di letteratura per l’infanzia. Era una conversazione tra liguri, entrambi conoscevano cosa significava andare alla punta del molo saltellando da uno scoglio all’altro o usare un torrente come sentiero o camminare su un muretto, per cui non c’era da essere molto precisi. Tutti possiamo capire bene a cosa Calvino si stesse riferendo. Credo che, per Italo Calvino, la letteratura per l’infanzia e la letteratura in generale, siano state per lungo tempo proprio questo: spazi, ambienti e percorsi. Muretti, alberi su cui saltare; torrenti, sentieri, boschi in cui nascondersi; scogli, strade, parchi per i giochi di relazione, campi in cui costruirsi un ruolo tra gli altri. Questi suoi giochi sono gli avi degli “antenati”, le prime cose che, da bambino, lo hanno rapportato con il suo territorio. Questa è la sua letteratura per l’infanzia. 

Che cos’è, dunque, la trilogia de “I nostri antenati” se non la trascrizione dei giochi del bimbo Italo? Come ogni bambino, contando sulla propria immaginazione, impersona ora la parte buona ora quella grama del conte Medardo, oppure rifiuta il piatto di lumache di sua sorella e sale testardo su un albero come Cosimo, o, ancora, cerca se stesso tra mille paladini di cui invece biasima i vizi formali, pedante come Agilulfo. Attraversa, regola, determina, spazi, ambienti e ruoli. Come Mark Twain, Calvino sapeva che se non si può rimanere bambini per sempre, lo si può restare a lungo. Ogni età ha il suo gioco e ogni bambino la sua letteratura.

Non c’è bambino che non sogni di salire sugli alberi come Cosimo de “Il Barone Rampante”: Calvino lo avrà visto fare chissà quante volte a Libereso Guglielmi, il botanico da poco scomparso, coetaneo e compagno di giochi di Italo, un folletto che lavorava con suo padre Mario alla stazione sperimentale di floricoltura. Ma il gioco diviene utopica follia quando, a dodici anni, Cosimo sugli alberi decide di passare tutta la vita, saltando da un’avventura ad un’altra, crescendo e affrontando lassù tutti i problemi della vita, da quelli filosofici a quelli pratici. Ricordo una rappresentazione, curata da Nico Orengo, ambientata sull’ontano del Barone Rampante, tra Apricale e Perinaldo, sul torrente Merdanzo, dove appunto Cosimo era solito andare a fare i suoi bisogni. Al gioco di arrampicarsi resterà fedele per tutta la vita, in tutte le sue avventure. Insegnerà la lettura al brigante Gian dei Brughi, amerà Ursula, tornerà a Ombrosa, fino a che, vecchio e stanco, una mongolfiera non lo porterà via e la sua vita da gioco diventerà davvero una favola. Non si fa fatica a vedere in Cosimo il buon selvaggio di Rousseau, o il Voltaire che si batte per il predominio della ragione. Ma un bimbo che ne sa, tutto questo lo vediamo noi, che siamo grandi.

Allo stesso modo, si gioca per capire chi siamo. Per capire chi è, il bimbo deve innanzitutto capire chi non è, dare un perché e un percome a comportamenti, azioni, parole, di cui vede solo la scorza. Fare come l’Agilulfo de “Il cavaliere inesistente”, oltre a fargli indossare una bellissima armatura bianca, gli permette di seguire un percorso, un ruolo, una regola ferrea e riconoscersi nella ricerca di qualcosa: la battaglia, il santo Graal, un amore cortese. Ma dev’essere perfetto, esatto, marziale, qualcosa che non esiste sulla terra. Finché non si rende conto che tutta questa perfezione lo sta trasformando in qualcosa di disumano, d’altro da sé, in un automa. Ogni gioco che si rispetti ha il suo limite. Quello di fare l’Agilulfo è allontanarsi dal mondo, che invece è imperfetto e incompiuto, perdere ogni rapporto con gli altri, con ciò che si ha attorno. Un prezzo troppo alto per chiunque. Così, anche il suo gesto estremo, quello di dissolversi, è vano: essendo lui costituito di puro niente, si risolve in nulla. Un insegnamento buono anche oggi, in tempi affollati di macchine, di computer, cui affidiamo le nostre relazioni.

Ci sono poi giochi che spiegano le differenze. Conoscere la differenza tra bene e male è un altro passo importante: spesso le sfumature non sono così nette come le si pensa. Non è una cosa così facile, occorre molta attenzione. Si comincia da vicino, ci si guarda attorno – tutti hanno uno zio, un cugino, un fratello un po’ matto – si riconoscono gli altri, si imitano i loro comportamenti, si impara a distinguere i sentimenti, le ragioni. Italo Calvino sa bene quanto sia importante questo processo: imparare da che parte stare è forse l’eredità più importante degli anni della Resistenza. E’ proprio ne “Il sentiero dei nidi di ragno” che scrive “E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte”. 
Bastava poco, a quei tempi, per divenire la metà cattiva de “Il visconte dimezzato”, un Medardo Gramo, vestito di nero, che taglia, spacca, brucia ogni cosa. Ma sdoppiarsi non si può, bisogna decidere, arriva il Dottor Jekyll e Mister Hyde, anche questo gioco ha il suo limite: non siamo né l’una né l’altra metà, ma l’uomo intero, completo, coi suoi pregi e i suoi difetti. Identificarsi magari “con gli aspetti cattivi dei buoni”, come dichiara Calvino.
Anche noi leggendo oggi “I nostri antenati” possiamo chiederci quanto a lungo siamo stati bambini. Sarebbe bello scoprire che lo siamo ancora. Oppure chiederlo ai nostri bambini, visto che l’infanzia dura sempre meno.

Pubblicato su: https://ilcolophon.it/italo-calvino-e-gli-avi-degli-antenati-62a9070da717

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Confini senza frontiere

Venerdì 20 novembre 2015 alle ore 18 presso la libreria L’Amico Ritrovato di Genova, Donald Datti, con la parteciparzione del prof. Antonio Gibelli, presenterà il mio romanzo “Confini senza frontiere”, Ultima Spiaggia edizioni.

Ecco, il primo capitolo in anteprima.

Confini senza frontiere
1.
Grotte del Pozzillo, Isola di Ventotene, agosto 1943
Nel ’39, quando al giornale mi dissero che mi avrebbero mandato qui, feci un salto sulla sedia. Stavo scrivendo un articolo sul commendator Ennio Tartaglia, un piccolo sarto che aveva inaugurato un’altra merceria e si avviava a ricevere il Littoriale del lavoro.
– Dalmasso, ti vogliono di là, dal direttore – mi dissero. Ma perché, mi domandai, chissà perché, che avrò fatto, ormai ho imparato a stare attento con la battitura, errori nell’ultimo articolo ce n’erano pochi davvero e poi sono più veloce che all’inizio, l’aveva detto anche Valenti, il caporedattore.

Invece, quando entrai nell’ufficio del direttore:
– Si accomodi, Dalmasso, si accomodi.
La scrivania di Ermanno Amicucci, il direttore de “La Gazzetta del Popolo” era la più bella, forse, che si potesse avere a Torino. S’era preso la stanza migliore di uno di quei palazzotti Liberty di via Cernaia, coi balconi che davano a sud. Anche d’inverno ci si stava in maniche di camicia e la luce restava fino a tardi la sera. La foto del Duce l’avevano messa sopra un piccolo ma retorico trespolino con pianale in marmo, su cui stavano anche la radio e, da poco, un busto d’alabastro. Il soggetto era lo stesso della foto, ma con il mento più prominente. Ma era lì da poco, ne sono sicuro; quando fui assunto, nemmeno un anno prima, ve n’era uno di Garibaldi, ne sono certo.
– Bene, Dalmasso – mi disse il direttore, pronunciando il mio cognome un po’ affievolito, non come chi sta chiamando qualcuno ma come chi ha paura di dire una parolaccia (del resto Amicucci è romano e non sa che “Dalmasso” è un cognome tipico piemontese, d’intorno a Cuneo) – ho letto con molto piacere il vostro articolo su Learco Guerra , bravo, “Learco Guerra non corre per la ricchezza, corre per l’onore. Non ha fama di ricchezze ma di storia. E’ come l’Italia…”.
– Come? Ma io… – Non ricordavo davvero d’aver scritto quelle frasi.
– Ah, devo dire che è scritto molto bene. Continui così!

Infine decisi di incassare i complimenti del direttore senza pormi domande. Così avrebbe fatto ogni redattore alle prime armi. (Poi andai a controllare: non avevo mai scritto quelle parole, il mio articolo era stato completamente cambiato. Forse era stato Valenti, senza dirmi nulla.)
– Grazie Signor Direttore, grazie.
– Voi avete delle qualità, sapete?
– Beh, se me lo dite voi ci credo, Signore.
– Come no, pochi sanno descrivere così d’imprese epiche, che onorano l’Italia.
– Ma Learco Guerra è un campione….
– Non siate modesto. Credo che le vostre doti siano sprecate nella cronaca locale.
– Beh…- non sapevo che dire.
– Dalmasso, ho un progetto per voi – disse lui.

Immaginate la mia sorpresa a sentire queste parole. Io che pensavo mi sarei trovato di fronte ad un rimprovero.
– Ascoltate bene. Come voi ben sapete, il governo manda i pericolosi sovversivi al confino in alcune isole del Mediterraneo. Lipari, le Tremiti, Ponza e altre. Vengono tradotti lì e mantenuti con vitto e alloggio a spese dello stato e lasciati nella più totale libertà. Pensate un po’: coloro che cospirano, che si riuniscono sediziosamente, che tramano contro lo stato e addirittura contro il Duce, in cambio noi li mandiamo in villeggiatura, come ebbe a dire il Duce in persona. Ora: la stampa anglosassone dice che i confinati di Ventotene vengono maltrattati. Vogliono sollevare l’opinione pubblica internazionale contro di noi. Dobbiamo smentire questa falsità. Capite?
– Certo…
– Bene. Da Roma ci chiedono di raccontare la verità, la vita dei confinati a Ventotene. Vogliono che si descriva come sono sistemati, che si racconti la loro vita quotidiana, che fuori d’Italia non si dica che noi non siamo clementi con i reati d’opinione. Bene, io ho pensato a voi.
– Beh.. Signor Direttore… grazie…, ma io…
– Ma voi cosa? Non mi dite che non vi interessa, che non vi piacerebbe…
– No…, sì che mi interessa e molto, ma…
– Si tratta di passare laggiù qualche giorno, una settimana, al massimo. E scrivere una serie di articoli: su come i confinati vengono trattati bene, su come là possono ripensare ai loro errori, su come ogni cittadino deviato può essere recuperato.
– Beh, ma, io…
– E se poi il vostro articolo piace, potremmo venderlo anche al Corriere della Sera e mandarlo in tiratura nazionale.- …
– E poi, al vostro ritorno, dopo questa esperienza importante, chissà… potrei anche proporvi come caposervizio…
Come poteva non interessarmi quella proposta? Come negare che per la mia carriera sarebbe stata un lancio inaspettato, dopo appena un anno passato a scrivere necrologi o articoli sulle mercerie del Cavalier Tartaglia? Ma come facevo a dirgli che a breve mi sarei sposato e quella decisione mi pesava? Come facevo a dirgli che l’articolo su Learco Guerra lui l’aveva totalmente travisato?
– Dalmasso, intendiamoci: voi andate lì per quattro giorni, in vacanza, a tutti gli effetti, nel migliore albergo dell’isola. Visitate il confino, vi guardate un po’ in giro, parlate con qualcuno, osservate tutto. E poi scrivere un articolo. Ma dev’essere bello, onesto, sincero, allineato, in chiara prosa littoria, ci siamo capiti?
– Certo. Scriverò la verità.
– Certamente, voi dovete scrivere la verità. I confinati stanno benissimo. Altro che maltrattamenti e propaganda inglese. So di chiedere molto. Non sarà facile. Certo non vi mando tra gente raccomandabile: su quell’isola c’è la peggior feccia che le ultime generazioni abbiano prodotto in Italia. Ci sono attentatori, insurrezionalisti, sovversivi, agitatori, anarchici, gente con ideali eversivi, testimoni di Geova e facinorosi comuni. Ah, attento, eh, dicono ci sia pure qualche pederasta. Ma tanto voi state per sposarvi no?
– Proprio per questo… Signore… mi dispiace…
– Ah! Ma di cosa vi preoccupate? Della vostra futura mogliettina? Pensa che una volta partito da qui si dimenticherà di voi?
– No… ma…
– Ma non si preoccupi! Le farà bene! Voi sapete come son fatte le donne…
– E come?
– Beh… siate fedele, siate sempre con lei, soddisfatela in tutto e per tutto… e proprio allora, lei vi tradirà. Invece voi partite, andate, siate ligio al vostro dovere e vedrà che la vostra futura mogliettina non farà che aspettare il vostro ritorno…

Povera Caterina. Quando glielo dissi, scoppiò a piangere, nemmeno le avessi detto che partivo per il fronte. Se mi avessero arrestato e confinato a Ventotene per qualche motivo, sarebbe stato più facile accettare tutto, oh povera ragazza mia. Ma questo è un altro discorso, ve ne parlerò strada facendo.

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