– Tu a che età sei stato bambino?
– Sono stato bambino molto a lungo.
-
Quando eri bambino con che cosa e con chi giocavi?
– Giocavo… con degli spazi, con degli ambienti. I giochi si dividono nei giochi che si fanno in un ambiente delimitato, per esempio un campo di football, e i giochi che si fanno al di fuori di un ambiente… È già un gioco fare un certo percorso. Per esempio: qual è il primo gioco che fa un bambino piccolo di tre, quattro anni quando lo portano al parco? Vede un muretto e vuole camminare sul muretto, tenuto per mano magari. Questa cosa del muretto in fondo mi è sempre rimasta.
– Un po’ da Tom Sawyer?
– Sì, per esempio… andare fino alla punta del molo, saltando da uno scoglio all’altro; oppure percorrere un torrente senza mai passar per le strade, ma da una pietra all’altra del torrente superando i punti difficili, perché ci sono… dei piccoli laghetti.
(Tratto da una intervista di Nico Orengo a Italo Calvino, in “Buonasera con… Calvino”, programma di Lucia Bolzoni, Nico Orengo, Donatella Ziliotto, regia Vittorio Nevano, Rai Due, 5 giugno 1979).
Una volta Nico Orengo chiese a Italo Calvino a che età era stato bambino e lui, con il suo parlare provvisorio, incespicante, con quel suo dire che pareva stesse raccontando una fiaba ad Esopo, gli diede la sua idea di letteratura per l’infanzia. Era una conversazione tra liguri, entrambi conoscevano cosa significava andare alla punta del molo saltellando da uno scoglio all’altro o usare un torrente come sentiero o camminare su un muretto, per cui non c’era da essere molto precisi. Tutti possiamo capire bene a cosa Calvino si stesse riferendo. Credo che, per Italo Calvino, la letteratura per l’infanzia e la letteratura in generale, siano state per lungo tempo proprio questo: spazi, ambienti e percorsi. Muretti, alberi su cui saltare; torrenti, sentieri, boschi in cui nascondersi; scogli, strade, parchi per i giochi di relazione, campi in cui costruirsi un ruolo tra gli altri. Questi suoi giochi sono gli avi degli “antenati”, le prime cose che, da bambino, lo hanno rapportato con il suo territorio. Questa è la sua letteratura per l’infanzia.
Che cos’è, dunque, la trilogia de “I nostri antenati” se non la trascrizione dei giochi del bimbo Italo? Come ogni bambino, contando sulla propria immaginazione, impersona ora la parte buona ora quella grama del conte Medardo, oppure rifiuta il piatto di lumache di sua sorella e sale testardo su un albero come Cosimo, o, ancora, cerca se stesso tra mille paladini di cui invece biasima i vizi formali, pedante come Agilulfo. Attraversa, regola, determina, spazi, ambienti e ruoli. Come Mark Twain, Calvino sapeva che se non si può rimanere bambini per sempre, lo si può restare a lungo. Ogni età ha il suo gioco e ogni bambino la sua letteratura.
Non c’è bambino che non sogni di salire sugli alberi come Cosimo de “Il Barone Rampante”: Calvino lo avrà visto fare chissà quante volte a Libereso Guglielmi, il botanico da poco scomparso, coetaneo e compagno di giochi di Italo, un folletto che lavorava con suo padre Mario alla stazione sperimentale di floricoltura. Ma il gioco diviene utopica follia quando, a dodici anni, Cosimo sugli alberi decide di passare tutta la vita, saltando da un’avventura ad un’altra, crescendo e affrontando lassù tutti i problemi della vita, da quelli filosofici a quelli pratici. Ricordo una rappresentazione, curata da Nico Orengo, ambientata sull’ontano del Barone Rampante, tra Apricale e Perinaldo, sul torrente Merdanzo, dove appunto Cosimo era solito andare a fare i suoi bisogni. Al gioco di arrampicarsi resterà fedele per tutta la vita, in tutte le sue avventure. Insegnerà la lettura al brigante Gian dei Brughi, amerà Ursula, tornerà a Ombrosa, fino a che, vecchio e stanco, una mongolfiera non lo porterà via e la sua vita da gioco diventerà davvero una favola. Non si fa fatica a vedere in Cosimo il buon selvaggio di Rousseau, o il Voltaire che si batte per il predominio della ragione. Ma un bimbo che ne sa, tutto questo lo vediamo noi, che siamo grandi.
Allo stesso modo, si gioca per capire chi siamo. Per capire chi è, il bimbo deve innanzitutto capire chi non è, dare un perché e un percome a comportamenti, azioni, parole, di cui vede solo la scorza. Fare come l’Agilulfo de “Il cavaliere inesistente”, oltre a fargli indossare una bellissima armatura bianca, gli permette di seguire un percorso, un ruolo, una regola ferrea e riconoscersi nella ricerca di qualcosa: la battaglia, il santo Graal, un amore cortese. Ma dev’essere perfetto, esatto, marziale, qualcosa che non esiste sulla terra. Finché non si rende conto che tutta questa perfezione lo sta trasformando in qualcosa di disumano, d’altro da sé, in un automa. Ogni gioco che si rispetti ha il suo limite. Quello di fare l’Agilulfo è allontanarsi dal mondo, che invece è imperfetto e incompiuto, perdere ogni rapporto con gli altri, con ciò che si ha attorno. Un prezzo troppo alto per chiunque. Così, anche il suo gesto estremo, quello di dissolversi, è vano: essendo lui costituito di puro niente, si risolve in nulla. Un insegnamento buono anche oggi, in tempi affollati di macchine, di computer, cui affidiamo le nostre relazioni.
Ci sono poi giochi che spiegano le differenze. Conoscere la differenza tra bene e male è un altro passo importante: spesso le sfumature non sono così nette come le si pensa. Non è una cosa così facile, occorre molta attenzione. Si comincia da vicino, ci si guarda attorno – tutti hanno uno zio, un cugino, un fratello un po’ matto – si riconoscono gli altri, si imitano i loro comportamenti, si impara a distinguere i sentimenti, le ragioni. Italo Calvino sa bene quanto sia importante questo processo: imparare da che parte stare è forse l’eredità più importante degli anni della Resistenza. E’ proprio ne “Il sentiero dei nidi di ragno” che scrive “E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte”.
Bastava poco, a quei tempi, per divenire la metà cattiva de “Il visconte dimezzato”, un Medardo Gramo, vestito di nero, che taglia, spacca, brucia ogni cosa. Ma sdoppiarsi non si può, bisogna decidere, arriva il Dottor Jekyll e Mister Hyde, anche questo gioco ha il suo limite: non siamo né l’una né l’altra metà, ma l’uomo intero, completo, coi suoi pregi e i suoi difetti. Identificarsi magari “con gli aspetti cattivi dei buoni”, come dichiara Calvino.
Anche noi leggendo oggi “I nostri antenati” possiamo chiederci quanto a lungo siamo stati bambini. Sarebbe bello scoprire che lo siamo ancora. Oppure chiederlo ai nostri bambini, visto che l’infanzia dura sempre meno.
Pubblicato su: https://ilcolophon.it/italo-calvino-e-gli-avi-degli-antenati-62a9070da717