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Sostiene Pereira, una graphic novel dal romanzo di Tabucchi

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Un fumetto con i testi di Marino Magliani e le tavole di Marco D’Aponte. A vent’anni dal libro, un nuovo modo per rivivere una grande storia


In una Lisbona abbacinante, nell’agosto del 1938, un tranquillo giornalista deluso dalla vita conosce un giovane irrequieto e scopre una possibilità di rivincita in una Europa che puzza di morte. Chi non conosce la storia di Sostiene Pereira?

Il romanzo di Antonio Tabucchi, un grande della nostra letteratura, scomparso troppo presto nel 2012, uscì, nel lontano 1994. Vent’anni fa. Allora vinse il Premio Campiello e attirò le solite polemiche: venne definito un libro bugiardo sul rapporto fra letteratura e potere e allusivo all’allora presente (la discesa in campo di Berlusconi). Ma il tempo ha dimostrato quanto fossero miopi quelle critiche. Sostiene Pereira è sopravvissuto a quella stagione politica ed arriva ancora a noi potente. È una di quelle storie che sanno di assoluto.
Lo conferma la versione grafica del romanzo, appena uscita da Tunuè, con i testi adattati da Marino Magliani e i disegni di Marco D’Aponte. In vent’anni, ciò che una volta si chiamava fumetto ha cambiato nome e ora si chiama graphic novel, ma ciò non toglie nulla, bensì illumina questa grande storia.

Il nitore con cui D’Aponte delinea l’estate di Lisbona, i ritratti dei personaggi, mai abbozzati ma rifiniti nei particolari, lo storyboard, fedele al romanzo, concordano con i testi di Marino Magliani nel rendere i contrasti del romanzo: luce/buio, amore/odio, amore/violenza, vita/morte. Oppure la resa del tempo che passa, come afferma Paolo Di Paolo nella prefazione.

La matita di D’Aponte ricalca l’immaginario di Tabucchi. Ecco rua Rodrigo da Fonseca, la sede della redazione culturale del Lisboa, dove Pereira lavora. Solo. Poi il Cafè Orquidea, dove Pereira beve limonate e cena a base di omelettes. Nonostante sia troppo grasso e il suo cardiologo glielo abbia proibito. Oppure la Iglesia das Mercês, dove Pereira va per parlare con Padre Antonio. Perché Pereira è cattolico, ma non riesce a credere nella risurrezione della carne.
Ma quella del 1938 è anche una Lisbona livida di uomini in divisa, grigia fucili, nera di morte, come era tutta l’Europa alle soglie della Seconda Guerra Mondiale. Anche se, a volte, c’è spazio per qualche azulejo.
Impossibile, invece, rendere graficamente quel Sostiene, una formula troppo potente che rimane un monito, una notifica, con quel tanto di formale, di giuridico che ha del kafkiano: ma a quale processo viene sottoposto Pereira? Quello della letteratura? Quello della storia? Forse solo a quello, inarrestabile, della sua coscienza.
Nessun personaggio è esente da dettagli. E D’Aponte riesce nella difficile operazione di non far rimpiangere il volto che a Pereira diede Roberto Faenza, quello di Marcello Mastroianni.

E se dentro Monteiro Rossi e alla sua fidanzata Marta c’è l’energia che sconvolgerà la vita di Pereira, grotteschi, espressionisti sono i ritratti dei fascisti, che richiamano i quadri di Grosz. Caricaturale la figura di Pietade, la portinaia spiona di Pereira, che causa un persistente odore nel portone con le sue fruttate (chi seguì le lezioni di Letteratura Portoghese di Antonio Tabucchi in via Cairoli a Genova sa che pure lì c’era un odore persistente. Ma era di minestrone…).

Il Pereira di Tabucchi, non è un antieroe, è un eroe a tutti gli effetti. Questo ci dice questo grafic novel, la stessa cosa del romanzo. L’eroe non è solo colui cui che ha un suo angolino nell’epica o una persona dotata di superpoteri. È soprattutto colui che ha il coraggio di incidere con le proprie azioni, per piccole esse siano. Il Pereira di Tabucchi emerge così dalla mediocrità passo dopo passo, scegliendo di distinguersi dai volenterosi carnefici, i burocrati impegnati nel funzionamento della macchina nazifascista, come li chiama Daniel Goldhagen. Tutti i Pereira, loro malgrado, sono degli eroi. Chissà, se ci fosse stato qualche Pereira in più, forse la terribile ecatombe della guerra si sarebbe potuta evitare?

Oggi i critici di vent’anni fa potrebbero dire: da questo romanzo era già stato tratto un film, c’era bisogno di farne un graphic novel? Ancora una volta la risposta è sì. Perché le grandi storie necessitano di più immaginari, di media diversi. E in questo caso il mezzo vale proprio il messaggio.

Giacomo Revelli

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Tenco, bella ciao

Vinicio Capossela commosso che ricorda Renzo Fantini. Il dizionario demenziale di Roberto Freak Antoni. Il cantastorie Enzo Del Re che batte e ribatte su una sedia. Questo e altro nella serata conclusiva, quella di sabato 13 novembre 2010. Ma cosa resterà di questo 35° (e, speriamo no, ma forse ultimo) Premio Tenco?
Ai discografici, alla Rai, al Comune di Sanremo l’ardua sentenza. Ma le premesse non sono un granché. Il Tenco merita di più.

Le dirette radio sono una bella cosa, ma condizionano – spesso sconvolgono – le scalette. Così Vinicio Capossela inaugura la serata, ma arriva a pubblico ancora freddo (gli spettatori del Tenco se la prendono sempre con molta calma) e la sua commozione vera, il suo racconto (a metà tra Fante e Bukowsky), non sono arrivati a tutti come dovevano arrivare. L’artista è apparso genuino, privo di quell’aria da prestigiatore dell’anima che aveva nelle passate edizioni, ha regalato anche un inedito, Le sirene, e si è sinceramente commosso parlando del suo amico Renzo Fantini, manager anche di Guccini e Paolo Conte.
Forse andava collocato in un momento diverso, a pubblico più caldo. Sono un po’ i conti che devono fare quelli del Tenco: il pubblico che lo segue, che si aspetta sempre emozioni nuove e forti dagli autori; e quelli che lo organizzano, alle prese con dirette radio/Tv che fanno tanto bene ai conti della manifestazione.

Per fortuna questa edizione ha avuto un tappabuchi d’eccezione, Roberto Freak Antoni, che, incalzato simpaticamente nei tempi dal bravo Silva, ogni tanto arrivava a sparare uno dei suoi esilaranti e riflessivi aforismi («se non piacciono, lo si dica, ne ho dei nuovi», ripete spesso): «Se le persiane di casa sono chiuse è a causa degli uomini iraniani»; «Se la fortuna ti tocca, magari ti ha preso per un altro», «Le merde che s’incontrano per strada a volte si salutano, più spesso si pestano».

Uno ride per Freak Antoni e non si accorge che hanno cambiato il palco per l’artista successivo.
Vestito di rosso, con il pugno alzato, popolare nel vero senso della parola (la sera prima l’ho incontrato alle Cantine Sanremesi a mangiare sardenara) arriva Enzo del Re. Lui stesso non vuole essere considerato un cantautore, ma un cantastorie. Il suo è stato il cambio palco più veloce del Tenco: solo un microfono e una sedia di legno, una carega la chiamano a Sanremo. Potrebbe cantare alll’Ikea.
Qualcuno lo definisce un corpofonista, ma Del Re ha la sua poetica, non sta in nessuna classificazione, preferisce la lentezza, adora il lavoro ma detesta la fatica. Quando dice che lavorare per i padroni lo stanca, qualcuno nel pubblico dissente e gli urla qualcosa di maleducato. Forse per questo esce di scena in fretta e non torna subito a prendersi gli applausi quando Silva lo chiama.

Marco Fabi invece non convince, una musica un po’ piatta, testi già sentiti, rime banalotte: «rumore/amore».
Bisogna incontrare di nuovo Freak Antoni per tirarsi su: «Lei era un tesoro, lui la seppellì», «Grazie dei fiori. Anch’io ti farei un mazzo così».

Poi spazio alla chitarra catalana di Amancio Prada (Premio Tenco operatore culturale), che musica una poesia di Garcia Lorca, e Piero Sidoti (Targa Tenco opera prima, leggi l’intervista) assieme a Battiston, presenza scenica e fisica indiscutibile del cinema italiano di oggi – proclama «La gentilezza è una qualità rivoluzionaria».
Paul Brady (Premio Tenco al cantautore), onora il premio ricevuto parlando in italiano quasi perfetto. Ma sta leggendo. Il pubblico comunque apprezza: non sono molti gli artisti anglosassoni che dimostrano questo tipo rispetto per chi ascolta.

Poi arriva di nuovo Freak Antoni, ma stavolta per fare il tappabuchi di se stesso: i tecnici stanno montando gli strumenti degli Skiantos.
«Al posto del cimitero voglio essere parzialmente scremato»; «L’omossessuale è quell’amico che si diverte alle tue spalle».
A lui si deve molto di questa edizione un po’ spenta, lo si è già detto. Ma lo si proclama, dopo l’esibizione con gli Skiantos: insieme un salto indietro nella storia della musica e nella storia italiana. Non si capisce perchè continuino a etichettare la loro musica come demenziale. Un gruppo che chiude la serata intonando Bella ciao e definendo questa canzone come «un classico della resistenza psico-fisica», s’inserisce da sè, di prepotenza, nella polemica attualissima se cantare o no il canto delle mondine e Giovinezza al Festival di Sanremo.
Quando gli Skiantos vanno via, molti continuano a cantare Sono un ribelle mamma.

Cala il sipario. Anche quest’anno. Ma un sipario più pesante, più cupo. Adesso per mesi niente musica, ma, parole, parole, parole, soltanto parole. Spiace che nessuno degli artisti invitati abbia cantato una canzone di Tenco, come al solito. Speriamo non sia un triste presagio.

Immagini su: http://imperia.mentelocale.it/28486-premio-tenco-capossela-e-freak-antoni-per-la-serata-finale/

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Al Tenco. Tra realtà e incertezze

Come sempre, con la raccolta delle olive, arriva anche il Tenco.
Non c’entra niente, ma ormai è tradizione: come accade sulle colline attorno Sanremo, anche all’Ariston, per la Rassegna della canzone d’autore, si combina ogni anno qualcosa di buono, a volte di unico, ma dal sapore tipico, da consumarsi preferibilmente entro tre giorni di emozioni, contatto, esperienze che solo la musica può dare.

Dopo due serate, passate con grandi nomi – Arbore, Carmen Consoli, Avion Travel, Bersani – e ottime compagnie – Carlot-ta, Brunori sas – e in attesa dell’ultima serata con nomi importanti – Paul Brady, Capossela, gli Skiantos, si può già fare un piccolo bilancio di questa edizione, nata con più incertezze delle altre e proseguita grazie soprattutto alla carica dell’entusiasmo e l’emozione di chi, pubblico e artisti, l’ha vissuta.
Bilancio che, tuttavia, non è propriamente esaltante. Anzi, alcuni non esitano a definire questo Tenco un po’ moscio.

Certo, le giustificazioni ci sono tutte: il premio Tenco è una manifestazione sempre più difficile da sostenere per i suoi organizzatori e mai come quest’anno ha rischiato di saltare. Solo un generoso contributo della Regione Liguria ha consentito al sipario dell’Ariston di alzarsi ancora su qualcosa che non siano solo canzonette.

Ma le incertezze rimangono. Da molte parti si parla di salvare il Tenco, ma nessuno si muove ancora. Un po’ tutti hanno la soluzione, la ricetta; spostamento di sede, sponsorizzazioni, investimenti, dirette radio-televisive. Ma il problema sembra un altro: è un po’ venuta meno la sensazione che a muovere il Tenco sia ancora quel gruppo di amici di una volta, quelli di Amilcare Rambaldi insomma, con quell’affiatamento che portava a Sanremo grandi interpreti e promesse.

Così, la sera di giovedì, per quanto sempre interessante, con artisti di calibro, ma priva di diretta radio, è scorsa senza grandi emozioni. Un Arbore freddino (qualcuno non ha gradito le sue tre canzoni e via, frettolose), un Morgan regolare nel senso che non s’è prodotto in numeri speciali come ci si aspetta ormai da lui. Serata salvata da quel grande virtuoso di Fausto Mesolella (Premio I Suoni della Canzone) – in uscita libera senza Avion Travel – e da Nada, intensa come sempre.

A presentare sul palco Antonio Silva, con le geniali incursioni di Roberto Freak Antoni (Premio Tenco operatore culturale) che con un suo esilarante dizionario, assisteva i cambi di palco, sempre comunque veloci e perfetti.
Questa volta sarà per il salvataggio in extremis, ma il Tenco ci aveva abituato bene gli ultimi anni: manca una direzione artistica efficace, che renda l’offerta, gli abbinamenti e le sperimentazioni  all’altezza delle esigenze dell’Ariston B, il pubblico di quelli che non si accontentano, che comunque guarderanno sempre l’Ariston A con una certa qual sufficienza.

E’ andata meglio ieri, venerdi 12 novembre, con nomi ormai affermati, Samuele Bersani, Carmen Consoli (Targa Tenco miglior disco) e gli Avion Travel (Targa Tenco miglior interprete), Peppe Voltarelli (Targa Tenco miglior disco in dialetto), insieme a meno noti Mirco Menna, Zibba e Brunori sas, vera scoperta e premio per l’autore emergente.
Bersani, sempre attento al mondo attorno, che parte con Lo Scrutatore non votante, canzone di straordinaria attualità. Fausto Mesolella che rifà il trucco a un bel pezzo di Nino Rota e lascia senza parole.
Carmen Consoli che, emozionatissima, arriva elegante e con un tacco forse un po’ esagerato (ma se lo può permettere) e poi regala una canzone, Mio zio, così difficile e così attuale al tempo stesso. In programma prima un salto al nord con il varazzino Zibba e poi benvenuti al sud con Peppe Voltarelli.

La terza serata con Capossela, Paul Brady (premio Tenco al cantautore), Enzo Del Re, Marco Fabi, Amancio Prada (Premio Tenco operatore culturale), Piero Sidoti (Targa Tenco opera prima), promette bene.
Resta l’incertezza di sottofondo, nella speranza che serva da stimolo, a rendere migliore questa manifestazione e non da minaccia per chiudere tutto, che non si rischi di perdere un’opportunità così bella per la musica italiana, non lasciandola anch’essa al suo destino. Da conservare, non da salvare in extremis.

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Amare un polittico

Dopo un lungo restauro torna a Pigna il San Michele del Canavesio, pittore errante del Ponente. Opera d’arte e orgoglio di un popolo 

 
Qualcuno, a Pigna, dice di vederlo ancora in giro, il Canavesio, sacerdote-pittore errante a dorso di un mulo, con il suo amico Baileson, come un Don Chisciotte della Val Nervia, ma armato di pennelli pergamene intingoli pigmenti.
E, a giudicare dalla scia di Giudizi Universali, vite della Vergine, stragi degli Innocenti e Natività che ha lasciato da queste parti, tra Briga e Albenga, Giovanni Canavesio di strada deve averne fatta proprio tanta.
Opera maestra e forse ultima è il Polittico di San Michele, che dopo un restauro durato due anni (grazie alla collaborazione con il Fondo per l’ambiente italiano e ai contributi della Fondazione Carige e dell’azienda Boero colori). e varie vicissitudini è tornato nella sua sede originaria, la chiesa di San Michele, a Pigna.

Dieci anni fa, un giorno come un altro, in un’aiuola sul ciglio di una stradina provinciale di Como, un carabiniere trova un angelo bellissimo.
Potrebbe iniziare così la storia di questo capolavoro, se non fosse già cominciata molto più lontano. E molto tempo prima. L’angelo in questione è proprio la pala centrale del prezioso Polittico di San Michele, dipinto nel 1500 dal Canavesio per la chiesa di San Michele di Pigna, un’opera di straordinaria potenza visiva, alta 4 metri e mezzo e larga 3, con 36 pannelli e decorata di preziosi intagli dorati.
Il furto, avvenuto un anno prima, aveva lasciato sgomento un paese in cui il legame tra territorio e tradizioni è tuttora fortissimo. Questa storia, però, a differenza di molti altri casi di furti d’arte sacra nel ponente ligure, ha un lieto fine. E chi sabato 17 dicembre, si fosse trovato a Pigna ne avrebbe vissuto l’apoteosi, il classico “e vissero tutti felici e contenti”.

La chiesa è gremita di gente, la banda, fuori, sotto il porticato, attende il via, gli ottoni leggermente imperlati di pioggia fina. Sulle tovaglie a quadretti bianchi e rossi stazionano teglie di sardenara e bruschette d’orzo mentre qualcuno s’è già bevuto due o tre bicchieri di sangria. Ma guai a toccare da mangiare, guai a vibrare una nota: prima c’è da salutare, nel miglior modo possibile San Michè che è tornato a casa.
In chiesa, come a messa, nei primi banchi siedono le signore più anziane. Per una volta si può fare uno strappo al Vangelo, meglio sedersi davanti per vedere l’Arcangelo così bello, molto, molto più bello di come lo videro addirittura le loro bisnonne.
Il sindaco accenna un discorso ma inghiotte le parole, tradito dall’emozione. Poi tocca al vescovo, più avvezzo ai pulpiti e alle platee, parla in latinorum “ad multos annos”, poi tocca ai restauratori. Descrivono nei dettagli ciò che è stato fatto al polittico, anzi, tecnicamente, alla Maestà di San Michele: fotografie, scansioni all’infrarosso, lastre ai raggi x. Qualcuno storce il muso: che è un angelo, non un cristiano qualunque.

Grande è la devozione che i pignaschi hanno sempre avuto per il loro San Michele. Per anni l’opera del Canavesio ha formato l’immaginario della gente. I bambini qui, imparano presto il gesto del santo che pesta il capo al demonio. Non a caso si scelse San Michele, angelo della milizia celeste, come patrono di Pigna, un posto di frontiera, spesso scenario di guerre e laceranti divisioni. La comunità non se n’è mai voluta separare. Nel 1940, Nino Lamboglia, arcinoto soprintendente per il patrimonio artistico, volle restaurarlo, ma non trovò nessun carpentiere e falegname disposto ad aiutarlo e dovette ricorrere al Genio dell’Esercito.
Nel ’44 fu nuovamente smontato e nascosto nella cripta per timore di razzie naziste. Poi, nel 1997 il clamoroso furto lo privò della pala centrale, proprio quella raffigurante San Michele, poi ritrovata dai carabinieri. Infine quest’ultimo restauro, con la gente che torna a preoccuparsi per il suo protettore e non si fida dei foresti che se lo portano via.

«Mentre smontavamo il Polittico», dice Annarosa Nicola, direttore tecnico responsabile della Nicola Restauri di Aramengo, «una signora si è messa a piangere, dicendo che, data la sua età, non avrebbe più rivisto il suo amato San Michele.
Durante il rimontaggio, invece, le donne entravano in chiesa, diffidenti a vedere se era davvero lui o ci eravamo sbagliati».

Ma alla fine i pignaschi sono ammutoliti, non hanno più parole. C’è solo da guadarlo, bello, aitante, divino. L’angelo è tornato. Canavesio è passato di lì, ancora una volta.

Pubblicato su www.mentelocale.it il 19 dicembre 2007

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Cento anni di Hanbury oggi

Nel primo ‘900 c’era ancora chi creava oasi verdi nel Ponente ligure, chi costruiva sobrie villette. Dagli anni ’60: speculazione e degrado  

Quando morì, il 9 marzo del 1907, i suoi giardini cominciavano a fiorire. Considerata la sua grande passione per la botanica, a Thomas Hanbury dev’essere dispiaciuto molto andarsene proprio quando tutto era pronto per l’esplosione della primavera.
Quest’anno ricorre il centenario della morte del fondatore dei Giardini Hanbury. Cento anni molto intensi, un secolo breve e decisivo per il paesaggio a cui teneva molto: sono cambiate così tante cose loro attorno, da far sembrare i Giardini Hanbury una sorta di Jurassic Park. E questo non tanto perché siano cambiati i fiori e le piante che li popolano – che i tempi della botanica sono molto più lunghi e regolari di quelli dell’uomo – quanto perché i Giardini Hanbury hanno rappresentato e sono tutt’ora, l’ultimo esemplare di una specie di intervento sul territorio ormai definitivamente estintasi in Riviera, surclassata, non per selezione naturale, ma puramente speculativa, da un’altra, ben più forte e potente: quella dell’edilizia del profitto, del turismo di massa.

La scomparsa di Hanbury, in un certo senso, è lo spartiacque tra due modi di concepire l’intervento sul territorio. Da quel 9 marzo 1907 possiamo far partire idealmente il cronometro del degrado ambientale del Ponente ligure.
Prima, però, mettiamo le lancette un po’ più indietro. Thomas Hanbury arrivò in Riviera per riposarsi, dopo un lungo soggiorno in Cina. S’innamorò del promontorio della Mortola e, assieme al fratello Daniel, esperto agronomo, decise di sfruttarne il microclima eccezionale per costruire un orto botanico. Fu un’operazione non da poco: il promontorio, fino ad allora coltivato a uliveto e agrumeto, venne adattato ad ospitare piante provenienti da ogni parte del mondo, che necessitavano quindi di terreni, spazi e ambienti molto diversi tra loro. Dal 1868 Ludwig Winter, un giovane agronomo ma con già una grande esperienza di piante esotiche acquisita in giro per il mondo, diede l’aspetto decisivo ai giardini con l’impianto della Phoenix Dactliliphera, una specie di palma fino ad allora sconosciuta, ma che diventerà uno dei simboli della Riviera. Un’operazione, quindi, davvero ardita sotto tutti i punti di vista, soprattutto ambientale e paesaggisico. Ma, pur modificando il promontorio, Hanbury ne mantenne inalterate le caratteristiche essenziali: conservò il più possibile, la vegetazione spontanea che era stata impoverita dai pascoli, mantenne le pareti rocciose e le scogliere, in un equilibrio assoluto tra paesaggio agrario e intervento umano. Hanbury, inoltre, divenne un vero punto di riferimento per la comunità locale: costruì un sistema acquedottistico per i fontanili tutt’ora attivo, scuole, ospedali e un cimitero a Mortola superiore oggi in stato di semi abbandono, ma dal panorama mozzafiato a picco sul mare, nel rispetto della consuetudine dei camposanti liguri. Sua era anche l’intenzione di realizzare un porticciolo, e di sicuro non sarebbe stata una colata di cemento, com’era nelle recenti intenzioni delle amministrazioni e dell’imprenditoria locale.

Quello di Hanbury, quindi, divenne negli ultimi anni dell’800, un modello da seguire: chi veniva in Riviera doveva rispettarlo e farlo proprio. Anche Charles Garnier, grande architetto dell’Opera di Parigi, quando volle costruire la sua villa a Bordighera nel 1871, disegnò un edificio sobrio, senza concedersi troppo all’eclettismo che aveva manifestato nella capitale, e la cinse di un giardino terrazzato a palme per coprire le volumetrie e mantenere quel gusto vagamente orientale che tanto piaceva ai visitatori della Riviera di allora. Anche l’architettura delle ville rispetta moduli definiti e stabili: edifici rivestiti di intonaco bianco, con la tipica torre-belvedere, ricchi di gazebo, recinzioni, voliere e parapetti in stile rustico, ossia, cemento impastato con paglia e legno. Ovunque, agavi, opunzie, alöe.

Dopo la morte di Hanbury, a questa attenzione per il rispetto del territorio, cominciò progressivamente ad affiancarsi un’altra tendenza che si svilupperà in modo tragico successivamente: quella che sacrifica gli spazi e il verde ai grandi numeri. Mentre il modello Hanbury comprendeva, a fronte di un intervento sostanzioso, un equivalente volume di verde e una ricompensa in benessere comune, quest’ultima invece sfruttava il territorio in maniera industriale, lottizzandolo per il puro interesse personale.
Dopo la Prima Guerra mondiale, quando il flusso turistico in Riviera e Costa Azzurra inizia a farsi consistente, il numero dei giardini di Ventimiglia, Bordighera e Sanremo comincia gradualmente a diminuire. Ma i nuovi grandi alberghi e le ville Liberty di Sanremo e Bordighera, restano comunque circondati da palmeti e ampi spazi di vegetazione che nascondevano le loro imponenti volumetrie. Già, però, nel 1931 c’è chi, come Edward e Margaret Berry, autori di “Alle porte occidentali d’Italia”, esprime pareri preoccupanti per il rischio di degrado se lo sviluppo turistico non avesse rispettato l’ambiente naturale. Era un campanello d’allarme.
Ma fu tutto inutile: nel secondo dopoguerra, ma soprattutto dagli anni ’60 agli anni ’80, le benne delle ruspe si abbattono sulle Phoenix dactilifera, sulle Phoenix canariensis, sulle Chamaerops humilis, sulle Washingtonia filifera per fare spazio alle “future soleggiate-tricamere-servizi” di cui parla Calvino ne La speculazione edilizia, scritto tra il 1956 e il ‘57.

Il processo è irreversibile. Gli spazi verdi vengono sacrificati per tirare su solai o allestire parcheggi, gli edifici si accatastano con poca considerazione dei rii o dei torrenti, l’intervento sul territorio è affidato alla fronte sudata di geometri tuttofare, incalzati da impresari abituati a maneggiare fiches e cambiali, che foraggiano politici volutamente assenti. Il pietroso ermetismo dei liguri cede nei confronti dei quattrini brianzoli o piemontesi. In pochi anni, si è passati dal giardino collettivo al dormitorio di villeggiatura, al colonialismo geriatrico, alla dislocazione in Riviera della periferia dei grandi centri del nord. Ultima, la speculazione s’abbatte ora sulla floricoltura in crisi: i casoni di campagna diventano villette a tre piani, mentre i terreni incolti vengono sempre più frequentemente sostituiti dai capannoni dei centri commerciali.
Anche quest’anno le alöe e le agavi di Sir Hanbury fioriranno. Ma sono ormai una specie rara, in via di estinzione.

Pubblicato su www.mentelocale.it il 10 marzo 2007

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